09 aprile 2020

Sull'identità dei migranti

Oggi pomeriggio ho seguito un webinar interessante sull'insegnamento dell'italiano a studenti debolmente scolarizzati. In Italia il problema riguarda essenzialmente i migranti e, fra i diversi problemi caratteristici di questi corsi, il relatore citava la loro "identità percepita", intendendo con questo la percezione che ognuno di noi ha della propria identità in contrapposizione con l'immagine che gli altri, di diversa provenienza, hanno di noi, non in quanto individui ma in quanto originari di un determinato Paese. Proponevano alcune attività utili per superare gli stereotipi che accompagnano l'incontro di culture diverse.
Questo mi ha fatto riflettere su un mio studente.
Si chiama L. G., ha circa 55 anni ed è un "immigrato" di IV generazione, essendo l'erede di un tale L. G.  arrivato a Manchester 134 anni fa, nel 1886.
Per me è stupefacente che lui si senta italiano.
Per lui è incomprensibile che i suoi lontanissimi parenti italiani, che ancora frequenta in estate, lo considerino inglese.
Non so, perchè non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo, se i suoi amici e conoscenti di qui lo considerino italiano o inglese, è questo un tassello che mi manca.
Ho già avuto modo di riflettere su questo aspetto, su fatto cioè che l'identità percepita da un emigrante non coincida affatto con ciò che "vedono" i compaesani rimasti nel Paese d'origine: ancora in tempi non sospetti, quando Real Time mi offriva occasioni di relax durante la pausa caffè pomeridiana, Buddy il re delle torte parlava di se stesso come di un italiano vero, mentre cucinava improbabili paste molto american-style e trattava le sue sorelle come nessun fratello avrebbe mai osato neppure nell'entroterra siciliano anni '50: aveva appreso modelli di comportamento (e ricette di cucina) che credeva italiani ma non lo erano. Oppure quando, subito dopo la maturità, conobbi la cugina nata nella Svizzera tedesca di una mia compagna di liceo. Questa cugina aveva imparato a parlare "italiano" da una nonna che in realtà parlava solo un dialetto marchigiano stretto... si è scontrata in quell'occasione con la realtà: la sua presunta identità italiana era una cosa falsa, come le paste di Buddy e il senso di appartenenza di L. G. O ancora, ai tempi del Poli conobbi il figlio di un diplomatico che si era trasferito a Milano da poco, avendo vissuto in una mezza dozzina di Paesi e avendo studiato, negli anni tra la fine delle superiori e l'inizio dell'università, in Spagna. Parlava un italiano che sarebbe stato considerato buono se lui fosse stato spagnolo. E parlava uno spagnolo di buon livello per uno straniero ma non per un madrelingua. Parlava un eccellente inglese ma, non avendo genitori inglesi, non la considerava una "sua" lingua. "Io non ho un madrelingua" mi diceva. Io lo consideravo un falso problema e, anzi, capra come sono con le lingue, un po' lo invidiavo. Adesso capisco che il suo non era un problema di lingua, era un problema di identità: spagnolo in Italia, italiano in Spagna, a casa in nessun luogo.

Non è una riflessione che porta a conclusioni, non ne ho la pretesa: per chi lo vive è un problema complesso.
A me basterebbe capire come aiutare L.G. a superare la sua paura di commettere errori e, finalmente, parlare italiano.

4 commenti:

  1. Cara Flo, capire queste cose, di emigranti non è facile per tutti, forse che l'emigrazione la ha già provata può dire qualche cosa, io la ho provata.
    Ciao e buona serata con un forte abbraccio e un sorriso:-)
    Tomaso

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    1. È vero, Tomaso, sono sensazioni difficili da immaginare

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  2. Probabilmente L.G. dovrebbe imparare prima a scrivere correttamente in italiano e poi, col tempo e la pazienza, anche parlare. Pensando in italiano. Che poi, a differenza dell'inglese, ogni parola italiana di solito ha un significato proprio che di per sé la identifica con il contesto. Se escludiamo la nostra fonetica dialettale per parole tipo pèsca o pésca (che hanno significato diverso, ma che a Bologna si pronunciano lo stesso "pèsca" sia che mangi un frutto o che catturi un pesce!). O, per fare un altro esempio, parole come "càpitano", "capitàno" o "capitanò", "àncora" e "ancòra", nelle quali l'accento caratterizza il valore semantico e quindi il contesto. Di contro, per citare due parole inglesi a caso che mi vengono in mente: "mellow", nel caso di un frutto può significare "maturo", ma anche "dolce", oppure "generoso" (se parliamo di una persona); o il verbo "deliver", che può significare sia "consegnare", "recapitare", ma pure "pronunciare" (un discorso), o addirittura "far partorire" e anche "parto"! E le differenze non sono certo da poco... Almeno secondo l'Oxford Paperback Dictionary che ho davanti al naso.
    Quindi, credo che a L.G. si dovrebbero spiegare anche gli accenti della nostra lingua.
    E accenti a parte, io, che conosco poco l'inglese e non m'interessa impararlo, mi accorgo che se penso prima in inglese riesco a comporre una frase sufficientemente corretta. Per la pronuncia, invece, almeno per me, è più difficile. Quando parlo sembro Stanlio e Ollio! 😁

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  3. E per confondere ancora di più le idee, "dolce", in inglese, si dice anche "sweet"... 😨🤔

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