C'è lui, Giuseppi, che ha tenuto altissima la già alta bandiera italiana lo scorso anno.
Lui che al di qua della Manica è un mezzo eroe, amatissimo da pasticcieri allo sbaraglio, cuochi provetti e italofili di varia estrazione.
Lui che, dopo una laurea italiana in ingegneria e un dottorato in UK, dopo anni spesi quassù lavorando per non so quale azienda, la scorsa estate ha deciso di rientrare in Italia, per l'esattezza nella "mia" Milano, dimostrando a tutti noi che, evviva!!!, esistono i voli di ritorno.
Ebbene, Giuseppi, dopo neppure un anno, ha deciso che no, non si può tornare. Scrive sul suo profilo IG: "...mi sono trasferito qui solo la scorsa estate cercando il mio luogo felice (happy place, lo chiama). È risultato che il mio happy place è nei sobborghi di Bristol".
Questo è solo l'ultimo episodio, ma conosco, direttamente o indirettamente, tante storie di persone che, dopo un'esperienza all'estero, decidono di tornare e non ce la fanno. Gente che rientra avendo già un buon lavoro e una casa, non persone in difficoltà. Famiglie strutturate, non post-adolescenti a caccia di avventure, persone che mettono sul piatto della bilancia lavoro, burocrazia, affetti, senso di appartenenza, scuola e tempo libero, cultura, cucina, anziani genitori e vecchi compagni di scuola, radici antiche e giovani germogli. Tutto questo distribuito sui due piatti di tale immaginaria bilancia, pensando che penda verso l'Italia, e invece pochi mesi sono sufficienti a capire l'errore.
Cos'ha l'Italia? Perché respinge i suoi figli?
Perché ci sentiamo estranei a casa nostra?
La tragedia, però, è un'altra: è che talvolta non è nemmeno necessario partire...
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