Leggevo che le fonti di stress possono dividersi in due categorie: quelle per rimuovere le quali si può fare qualcosa e quelle per le quali non si può fare niente, o quantomeno niente individualmente.
Lo stress derivante dalle prime è uno stato di allerta buono, che porta a migliorare le nostre prestazioni in modo da raggiungere l'obiettivo: la paura per un esame, ad esempio, o l'attesa dello sparo che segna l'inizio di una competizione.
Lo stress derivante da situazioni non gestibili direttamente da noi porta invece a uno stato di frustrazione annichilente, alla depressione, alla malattia.
Fin qui l'articolo, che mi ha fatto riflettere
Avere la possibilità di fare qualcosa e non farlo (per pigrizia, per gattamortismo, per paura o per timidezza, perché ci fa schifo l'idea o perché non si teme un altro fallimento) non trasforma lo stress del primo tipo in stress del secondo, anzi si aggiunge alla mancanza che l'ha generato la consapevolezza della propria debolezza: possiamo mentire agli altri, non a noi stessi. Si può accettare la propria debolezza, superando il conseguente crollo di autostima? Non lo so...
Per quanto riguarda il secondo, invece, l'unica via per uscire da questo stato di frustrazione è riconoscere la nostra impotenza e accettarla. Ma accettarla senza il senso di fallimento che di solito l'accompagna, perché che fallimento può mai essere quello riferito a situazioni sulle quali non abbiamo modo di incidere?
Si può portare il cavallo alla fonte, ma non lo si può costringere a bere... Adler descrive questo come separation of tasks (separazione dei compiti), sottolineando che non possiamo e non dobbiamo sentirci responsabili dei tasks altrui, men che meno di ciò che, non essendo alla portata di nessuno, non può neppure essere considerato un task.
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