07 giugno 2019

Switching perspective (without the "s")



Rifo.
Io sono una "expat". O, per essere molto più precisa, una expat wife. Moglie laureata e dai molteplici interessi di un professionista laureato e multi specializzato, selezionato su LinkedIn da un head hunter a caccia di talenti e attirato in UK con un contratto dai contenuti interessanti; bella casa, figli sani, intelligenti e studiosi, belle prospettive per il futuro. E se la brexit dovesse diventare un problema, tanti saluti a tutti e me ne torno a casa a spese dell'azienda.
Kwabena Michael, invece, è un "migrant". Nato in Ghana, dopo la laurea si è sposato e è partito per l'UK. Vivono in 4 in una casa di 80 mq per la quale pagano un affitto di 6.000 pounds all'anno più le spese e gestiscono il fantasmagorico budget di circa 22.000 pound -lordi- all'anno, frutto di due stipendi per un lavoro a tempo pieno e uno part time. Ha un permesso di soggiorno e di lavoro permanente che di permanente ha poco: basta un errore nel calcolo delle tasse, una multa non pagata (magari perchè non recapitata, è successo), una prolungata assenza da scuola non sufficientemente giustificata dei figli (è successo anche questo: l'assenza non giustificata comporta una multa che, se non pagata, diventa debito nei confronti del Council, cioè una cosa paragonabile a un'imposta evasa), un solo inciampo e la sua famiglia diventerebbe improvvisamente indesiderata e, conseguentemente, espulsa.
Ecco: pur condividendo, sulla carta, lo stato di residente senza cittadianza, non credo che potrei mai calarmi nella sua precaria realtà quel tanto che basta per capire come ci si sente. Cambiare prospettiva non è un esercizio facile.

Nonostante tutte le mie paturnie, sono una privilegiata, come ha saggiamente osservato la mia amica.
Sarebbe il caso che ne prendessi atto e cominciassi a star bene.

La mia amica ha suggerito un'altra questione interessante: chissà se qualcuno avrà mai provato a cambiare modo di guardare me? Ma forse viviamo a compartimenti stagni...

PS: Kwabena Michael non esiste, la sua storia invece è vera. Ho lavorato, purtroppo per poco tempo, negli uffici del patronato di un sindacato italiano piuttosto sinistroide e lì ho avuto modo di vedere gente che venderebbe un rene per garantire ai figli quello che noi diamo per scontato: la consapevolezza di poter affrontare serenamente gli eventi della vita.

4 commenti:

  1. Cara Flo, come vedi ci sono nuovamente, ora che ho finito i post della grade sfilata di noi alpini a Milano, eccomi per un caloroso saluto.
    Ciao e buon pomeriggio con un forte abbraccio e un sorriso:-)
    Tomaso

    RispondiElimina
  2. vivere a compartimenti stagni, immaginando le persone solo per quello che in effetti già sono, e non per ciò che potrebbero essere, o per come potrebbero essere, è molto limitante.... sia per chi osserva, sia per chi viene osservato. ma capisco che sia anche la cosa più facile da fare.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. A volte è anche l'unica.
      E un po' è anche "colpa" di chi non si fa osservare tanto facilmente. Banalmente, la vita privata non entra in ufficio e le questioni professionali stanno fuori dal Cali.

      Elimina
    2. questo, mi sembra sano e sacrosanto. ci sono luoghi e tempi per ogni cosa. lo spazio del cali è sacro, e dedicato a me, non al mio lavoro.
      però, ognuno di noi lascia certamente trasparire ciò che è al di là del ruolo che ricopre in un preciso momento. mi riferivo a quello.

      Elimina